Gli Dei Mani

QUISQUE SUOS PATIMUR MANES 

 

 

Caratteristico della religione romana è il culto degli Dèi Mani, ovvero genericamente le anime dei defunti ma in realtà l’idea stessa era così congiunta con quella del mondo infero che la parola di per sé significò la vita dell’aldilà. Noto è il verso di Virgilio nel VI libro dell’Eneide “ Quisque suos patimur Manes”, in cui secondo l’interpretazione più antica di Servio , i Manes sono le pene del mondo infero.

I Mani dunque simboleggiano i regni sotterranei della morte e divenne così usuale il significato di “defunti” che esso rimase anche nell’era cristiana anche quando dalle coscienze era tramontata ogni idea di culto pagano, con la formula DIS MANIBUS o D.M. nei sepolcri cristiani. Ma il culto e l’idea dei Mani non furono concepiti in modo costante e lineare nel corso del tempo, infatti come si sa le forme esteriori di un culto sono le più resistenti, permangono anche quando le ragioni che le hanno determinate sono interamente tramontate quindi la cerimonia religiosa può conservare nei suoi particolari qualche indizio della percezione originaria. La forma del nome è costantemente al plurale,( solamente in Apuleio e per una sola volta la si trova al singolare) così Virgilio dice che Orfeo potè evocare i Manes della consorte, Ovidio parla di quelli di Callimaco ed Achille, stessa cosa si ritrova nelle epigrafi come nel caso del marito di Mevia Sofe che si lamenta con i Manes di lei per la sua morte e che trattengono la donna giù negli inferi. Fin dalle origini dunque si parla di Manes o Mani al plurale anche se il defunto è uno solo. Nel culto ai Manes invece ritroviamo l’uso di consacrare nelle cerimonie due are, due altari, come nel III libro dell’Eneide al verso 306 in cui Andromaca consacra ai Mani di Ettore geminas aras oppure nella quinta egloga virgiliana in cui si parla esplicitamente delle due are consacrate al morto (Daphni). Per anni si è erroneamente ritenuto che quest’uso del plurale fosse un plurale poetico d’invenzione dell’autore ma così non è secondo gli studiosi (mi riferisco a Carlo Pascal nel suo “La morte e l’aldilà nel mondo pagano”) poiché in uno scolio Serviano vi è scritto che “ Sono anche alcuni che stimano i Mani essere quelli stessi, che l’antichità chiamò Genii, e due Mani fin subito furono assegnati ai corpi … anche quando i corpi son distrutti dalla corruzione, i Mani continuano ad abitare nei sepolcri.”. In questo scolio (che si può trovare nell’edizione del 1717 del Masvicio) è interessantissimo notare come in origine i Mani erano ciò che in seguito divennero i Genii: due per ciascun uomo, quello del bene e quello del male. Ovviamente per il sovrapporsi di queste forme numeniche il significato primario dei Manes si confuse ed oscurò, ma non scomparve e rimase accanto al significato dei Genii. Una prova di questa primigenia origine sta nel fatto che in età romana non si riusciva a capire se i Manii fossero in realtà entità benigne o malefiche, un’ambiguità che continuò ad essere presente proprio per il fatto che i Manes erano sia Genii benefici che malefici. Un’iscrizione (C.I.L., VI 2210) molto conosciuta dagli epigrafisti romani attesta che essi sono DII PROPITII, anche se più frequente è l’attribuzione di carattere infausto, essi sono infatti : rapitori, iniquii, nulla res flectuntur ovvero inflessibili. Tuttavia gli antichi relazionavano l’etimologia dell’aggettivo manus (buono) agli Dei Mani: Festo diceva che essi erano chiamati Mani, cioè buoni, dai loro veneratori poiché questi temevano di morire ( una sorta di Eumenidi greche) , mentre Servio spiegava i Mani per antifrasi “ Manes, quia non sunt boni!”, un gioco di parole per dire “ I Mani – buoni che non sono buoni!” Utile è anche la distinzione che Apuleio fece sulle varie specie di “Démoni” e sulla natura dei Mani ( De Deo Socratis, 15, 153, Cfr Vallette, L’apologie d’Apulée p.235). Secondo lui infatti i démoni possono essere le anime umane liberatesi dai corpi ed in tal caso prendono il nome di Lemures ed hanno nomi diversi: Lares se son custodi del focolare domestico, Larvae se vanno errando in espiazione di antiche colpe e Manes se per le loro azioni durante la vita mortale hanno meritato dopo la morte di essere considerati quasi degli Dei. I Mani quindi erano divinità arcaiche a carattere primitivo, ed il loro culto antichissimo legato al loro primitivo carattere si andò oscurando nel trascorrere dei secoli, ma i Manes e le loro pratiche di culto rimasero legati strettamente alle superstizioni popolari. Il romano quando dal pensiero dei Mani di tutti i defunti passava a quello dei Mani di un solo defunto continuava ad usare il termine al plurale pur non avendo coscienza che primitivamente si credeva che vi fossero due Manes a presiedere la vita di ogni uomo e che l’anima di questo si ricongiungesse dopo la morte alla natura divina di quei due suoi Genii. Ciò spiega dunque come il carattere di divinità infere si fissasse al concetto dei Manes: il defunto era onorato dai superstiti come un DIO. Col culto dei morti si risale alle origini remotissime della stirpe, della gens, ed onorare il defunto significa adorare i Manes di lui, cioè i due Genii che avevano presieduto alla sua vita e nei quali era stata assorbita la sua anima e la sua forza vitale. Cicerone, è d’obbligo citarlo in questo contesto, nel “ De Legibus” dice che “ Deorum Manium iura sancta sunto. “ –“ I giuramenti sugli dèi Mani siano sacri” non differendo molto dalle Leggi delle Dodici Tavole di Numa, caposaldo dei costumi romani , dimostrando che la religione popolare (non per questo ignorante ed ottusa, anzi tutt’altro) onorava come divinità tutti i morti, buoni e cattivi, ed entrambe le categorie conservavano la loro natura e le loro caratteristiche diventando Dei buoni gli uni e Dei malvagi gli altri. Potente era la cerimonia funebre romana, in cui i figli con il capite velato portavano alla pira il cadavere del genitore e quando rimanevano solamente le ossa dicevano che era diventato un dio, nell’invocazione del deus parens. Il padre così continuava a vegliare sui figli e sui destini della famiglia e in un ipotetico monumento familiare avremmo trovato una dedica agli Diis parentibus, Dei inferi dei genitori, che devono essere rispettati in quanto Mani e nei Mani vi è la divina forza. Gli Dei Mani sono due divinità tipicamente infere e nelle epigrafi venivano sempre menzionati, inoltre nella vita quotidiana si giurava per gli Dei Mani, per Deos Manes, come per altre divinità infernali si dovevano compiere sacrifici iusta solvere dovuti, essi avevano divina potenza e per placarli in favore della patria Quinto Curzio si precipitò in una voragine mentre Decio Mure si gettò a sicura morte nel folto della mischia. Le dedicazioni sepolcrali iniziarono ad essere espresse relativamente tardi nelle iscrizioni di età repubblicana sia urbane che provinciali e non si trova in effetti la formula DIIS MANIBUS o D.M., ma già verso la fine della repubblica iniziò a comparire la dedicazione perché il sepolcro venne considerato come un luogo ad essi consacrato. Un epitaffio repubblicano (C.I.L. I, 1410) avverte espressamente che quello è il luogo degli Dei Mani ed il dedicante dona quel luogo e quel monumento agli Dei Mani con il quale esso stesso si lega. Nel sepolcro dunque hanno dimora, ed avranno sempre dimora, i Manes del defunto che si siedono sopra le ceneri (Properzio) e sono pertanto Manes Sepulti di virgiliana memoria. Quando una tomba rimane vuota perché il corpo giace in altro luogo dove non è stato possibile recuperarlo, un amico o un familiare pietoso può invocare i suoi Manes perché vengano ad abitare all’interno della tomba vuota, come fece Enea presso il tumulo vuoto di Ettore (Eneide, III, 303.). L’invocazione si faceva chiamando tre volte i Mani presso il sepolcro, ed anche quando il cadavere era riposto nelle sua tomba, chi andava a far visita poteva chiamare per tre volte l’ombra del defunto, dicendo “ Vale, Vale!”. Se le anime dei defunti venivano invocate presso le tombe, streghe e negromanti conoscevano la pratica segreta dell’evocazione. La pericolosità di questa pratica era decisamente palpabile e molto sentita dai romani, poiché infatti se i Manes venivano tolti dal loro riposo essi iniziavano ad aggirarsi fra gli uomini, minacciosi ed irrequieti, presentandosi come ombre o simulacri agitando i mortali durante la veglia e soprattutto durante il sonno . Questo era un problema non da poco nel mondo romano e chi praticava la stregoneria sapeva benissimo come utilizzare a proprio tornaconto le anime, giustamente, irrequiete dei morti. Altri epiteti dei Manes erano “Profundi, Imi, remoti, inferi” e dimoravano nell’Ade. Dall’Ade potevano essere evocati con sacrifici cruenti attraverso le fosse, le spelonche o laghi che in punti particolari si ritiene possano avere un accesso agli Inferi. Nei tempi storici si dice che venissero compiuti dei sacrifici terribili, anche umani alla Dea Mània ( verosimilmente la madre dei Mani) . I Manes dunque erano gli spiriti dei defunti che uscivano dai loro sepolcri se evocati da streghe e fattucchiere, fantasmi ed ombre che si presentavano ai mortali taciturni, paurosi ed attoniti oppure irati e se ne vagavano per la terra chiedendo vendetta, punendo i contadini rendendo sterili le loro terre, nutrendosi dei sogni. Era necessario quindi placarli con le cerimonie e le formule rituali, portare loro delle offerte anche semplici come “una manciata di sale crepitante “ (Orazio). Il 13 febbraio cominciava la serie di nove giorni dedicati ai morti quanto nove erano i giorni che intercorrevano fra la morte e la sepoltura. Questo periodo comprendeva le feste Parentalia (feste funebri per i parenti defunti) In quelli che venivano definiti dies parentales, venivano espletati riti privati culminanti in una funzione pubblica di chiusura, e le feste Feralia di cui però non ci è pervenuta nessuna notizia. Secondo Varrone il nome deriva da inferi "morti" e ferre "portare", perché in quel giorno si portavano cibi rituali alle tombe dei morti. Diversa l'etimologia proposta da Festo, secondo il quale la parola significherebbe "ferire le vittime", anche se pare che in questa festa non siano previsti sacrifici del genere e Ovidio parla solo di semplici offerte di sale e vino che ciascuno fa sul sepolcro di famiglia, perché "parva petunt Manes" ovvero “ I Mani chiedono poco”. In questi giorni i riti erano celebrati tra parenti e venivano interdette tutte le normali attività della vita quotidiana (cessano gli affari, non ci si può sposare, i templi sono chiusi . Il 22 febbraio si celebrava la Caristia o Cara cognatorum, festa di famiglia in cui i parenti riuniti per ricordare i morti della famiglia , senza la presenza di estranei, rinsaldavano i legami di parentela sanando discordie e riunendo i familiari viventi in un banchetto comune e si portavano offerte di grano, uva, fave, focacce, vino e incenso. 

La testimonianza ovidiana riguardo ai Manes e alle feste in loro onore. 

 

<Parva petunt Manes: pietas pro divite grata est 

munere; non avidos Styx habet ima deos. 

Tegula porrectis satis est velata coronis 

et sparsae fruges parcaque mica salis, 

inque mero mollita Ceres violaeque solutae: 

haec habeat media testa relicta via. 

Nec maiora veto, sed et his placabilis umbra est: 

adde preces positis et sua verba focis. 

Hunc morem Aeneas, pietatis idoneus auctor, 

adtulit in terras, iuste Latine, tuas. 

Ille patris Genio sollemnia dona ferebat: 

hinc populi ritus edidicere pius. 

At quondam, dum longa gerunt pugnacibus armis 

bella, Parentales deseruere dies. 

Non inpune fuit, nam dicitur omine ab isto 

Roma suburbanis incaluisse rogis. 

Vix equidem credo, bustis exisse feruntur 

et tacitae questi tempore noctis avi, 

perque vias Urbis latosque ululasse per agros 

deformes animas, volgus inane, ferunt. 

Post ea praeteriti tumulis redduntur honores, 

prodigiisque venit funeribusque modus. 

Dum tamen haec fiunt, viduae cessate puellae: 

expectet puros pinea taeda dies. 

Nec tibi, quae cupidae matura videbere matri, 

comai virgineas hasta recurva comas. 

Conde tuas, Hymanaee, faces, et ab ignibus atris 

aufer: habent alias maesta sepulcra faces. 

Di quoque templorum foribus celentur opertis, 

ture vacent arae stentque sine igne foci. 

Nunc animae tenues et corpora functa sepulcris 

errant, nunc posito pascitur umbra cibo. 

Nec tamen haec ultra, quam tot de mense supersint 

Luciferi, quod habent carmina nostra pedes. 

Hanc, quia iusta ferunt, dixere Feralia lucem, 

ultima placandis manibus illa dies.>

 

<Chiedono poco i Mani: gradiscon l'affetto qual ricco 

dono: il profondo Averno non ha dei numi ingordi. 

Basta coprir la lastra di serti che s'offrono; basta 

che si sparga del grano con un poco di sale; 

e pane che s'inzuppi nel vino e viole disciolte, 

che siano dentro un coccio lasciato nella strada. 

Non vieto maggiori doni, ma bastano quelli pei morti: 

s'offran, oltre il sepolcro, preci e accenti di rito. 

Enea, grande maestro di pietà, nelle terre 

tue, o giusto Latino, portò questi costumi. 

Egli, al Genio del padre doni solleciti offeriva: 

il popolo di qui apprese il rito sacro. 

Ma quando un dì con armi tremende facevansi lunghe 

guerre, si trascuravan i giorni Parentali. 

E non senza castigo: si dice che Roma per questo 

mal augurio vampasse di roghi suburbani. 

Certo lo credo a stento: è fama che uscissero gli avi 

dalle tombe gemendo nel notturno silenzio; 

che per le vie di Roma e per le campagne spaziose 

ululassero spirti pallidi, vane larve. 

Dopo di ciò si rendon gli onori negletti ai sepolcri, 

e un limite si pose ai prodigi e alle morti. 

Ma durante quei riti, o nubili, non vi sposate: 

la fiaccola di pino aspetti i giorni fasti! 

A te, che da marito sembri alla madre che vuole 

sposarti, l'asta torta non porta il casto crine. 

Le tede tue, o Imenèo, nascondi, e le porti lontane 

dagli atri fuochi! I mesti sepolcri han altre faci. 

Anche le porte chiuse dei templi nascondano i numi: 

sian l'are senza incenso e spenti i focolai. 

Or l'ombre dei sepolcri vagano e l'anime vane: 

si pascono gli spirti dei cibi loro offerti. 

Ma i riti non sorpassin i giorni che restan del mese, 

che sono tanti quanti i piedi de' miei versi. 

Dissero questo giorno Ferale perchè quel che s'offre 

si porta e, per placare l'ombre, è l'ultimo giorno.>

 

Ov., Fast. 535-570

(Trad. Ferruccio Bernini, 1950). 

 

 

 

 

Elena Righetto 

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