Strumenti di Culto I: altari e focolari

Nella religione romana, non era possibile compiere riti sacri senza la presenza di un focolare

 

<nè è lecito che si svolgano sacrifici pubblici o privati senza il fuoco> 

[Serv. Aen. III, 134]

 

In particolare i focolari domestici erano consacrati alle divinità protettrici della casa, Lares e Penates [Serv. Aen. III, 178; III, 134; VI, 152].

 

Le offerte, le libagioni e parti delle vittime che erano destinate agli Dei, venivano bruciate, per fare questo i romani accendevano dei fuochi (definiti in generale foci [Serv. Aen. XII, 118]) su “supporti” chiamati altaria o arae, oppure su semplici focolari accesi sul terreno, foci.

 

 

 

<si offrano le viscere (exta porriciunto), si diano agli Dei, o su altari, o su arae, o su focolari (foci), o dovunque si debbano dare i visceri (exta dari)>

[Fab. Pict. De Jure Pont. I, Fr. 4 P apd Macr. Sat. III, 2, 3]

Gli altaria* erano strutture, generalmente in pietra, sopraelevate e permanenti, su cui ardevano i fuochi dei sacrifici [Fest. 5; Isid. Orig. XV, 4, 14]; le arae erano più piccole e meno imponenti, e vi era uno spazio per accendere un piccolo fuoco da usare durante i riti [Serv. Aen. V, 93]. I focolari erano semplici spazi delimitati sul terreno, in cui si accendevano i fuochi, oppure bracieri di metallo portatili che venivano preparati quando necessario; vi erano poi i mundus, ovvero focolari accesi in buche scavate nel terreno.

 

Secondo una suddivisione riportata da Servio, le arae erano dedicate alle divinità celesti, i foci agli Dei Medioximi o marini, i mundi alle Divinità Infere [Serv. Aen. III, 134]. Nella stessa suddivisione Varrone includeva gli altaria, ma non considerava i mundi, per cui gli altaria sarebbero stati dedicati alle Divinità Celesti, le arae a quelle Terrestri, i foci a quelle Infere [Verg. Ecl. V, 66; Var. apud Serv. ad loc.; Lucan. Phars. III, 404]. La stessa suddivisione si trova in Festo che però sembra riferirsi ai mundi anziché ai foci.

 

Gli altaria prendono il nome dall’altezza, poiché anticamente i riti per gli Dei Celesti erano compiuti in edifici sollevati da terra, quelli per gli Dei Terresti sulla terra, quelli per gi Dei Inferi in fosse [Fest. 29; cfr. Lact. Ad Stat. Theb. IV, 459]

 

Ed è richiamata anche da Vitruvio

 

<le areae dovrebbero guardare a est ed essere sempre poste a un livello inferiore rispetto ai simulacra degli Dei nel tempio, così che coloro che stanno pregando e sacrificando, possano guardare in alto verso la divinità. Siano di differente altezza, regolata in maniera appropriata a ciascuna divinità [...] per Giove e tutti gli Dei Celesti siano il più alte possibile, per Vesta e Madre Tellus, che siano più basse>

[Vitr. Arch. IV, 9]

 

Nella realtà però la distinzione tra altaria e arae non era così chiara: Servio ad esempio riporta che secondo alcuni l’altar era la struttura su cui si versavano le libagioni, mentre per altri era un tipo di ara [Serv. Aen. XII, 174; Serv. Aen. III, 134]; ci dice inoltre che per certi autori le arae venivano usate nei riti per tutte le classi di Dei [Serv. Aen. II, 515; III, 505; V, 54]**.

È molto probabile che in origine gli altaria fossero le uniche strutture permanenti, in pietra, solennemente consacrate e dedicate, su cui erano compiuti gli atti di culto; le arae invece erano strutture temporanee che venivano costruite al momento in cui servivano con i materiali reperibili sul posto, su cui erano posti i focolari per i riti sacri.

 

 

Vedi H. C. Bowerman Roman Sacrifical Altars, Lancaster PA 1913

** Daremberg et Saglio - Dictionnaire des Antiquités Grecques et Romaines: ara

 

 

Ara e focus

Le arae erano distinte in due categorie, quelle fisse, solennemente posizionate in un luogo sacro dedicato ad una divinità, edificate con materiali duraturi e spesso pregiati e quelle costruite per un’occasione precisa, o per divinità di minor importanza, solitamente con materiali di poco valore, anche solo zolle d’erba, definite temporanee (arae temporales), ne troviamo molti esempi nei testi poetici, soprattutto in ambito rurale [Ov. Fast. II, 645; Met. XV, 574; Hor. Car. I, 19, 13; III, 8, 3; Mart. III, 24; Verg. Aen. VII, 109; XII, 119; Sil. It. Pun.

XVI, 263; Calp. Sic. II, 62; V, 25; Val. Flac. IV, 339; Stat. Theb. II, 246; Cod. Theod. XVI, 10, 12, 2]

 

<era infatti usanza dei romani ammucchiare zolle d’erba e compiere i sacrifici>

[Serv. Aen. XII, 119]

 

<et ante aedem, in cespite promagister et flamen sacrum fecerunt>

[AFA 26]

 

Tale usanza è ricordata anche nelle arae fisse che spesso sono decorate con cespi d’erba e corone di gramigne, verbene, o piante di bosco [Ov. Trist. III, 13, 14 – 16; V, 5, 11; Prud. X, 187; Auson. Ephem. Parec. 13; Hor. Car. I, 19, 13; IV, 2, 78; 11, 7; Ter. And. IV, 3, 11; Ov. Met. VII, 242; Stat. Theb. II, 248].

 

Potevano anche essere consacrate più arae alla stessa divinità in un medesimo luogo [Var. apud Macr. Sat. I, 9, 16; Lyd. Mens. IV, 2; Verg. Aen. III, 305; Ecl. V, 66]; in questo caso si sarebbe dovuta rispettare la regola per cui agli Dei Celesti ne spettava un numero dispari, a quelli Inferi un numero pari, ma i testi letterari danno anche esempi contrari [Verg. Ecl. V, 66; Stat. Theb. IV, 456; VIII, 298]. Arae erano consacrate anche ai Manes, solitamente nelle vicinanze dei sepolcri [Verg. Aen. III, 63; VI, 177; Serv. ad loc. ; Verg. Aen. V, 48; Serv. ad loc.; Ov. Met. VIII, 480].

Le arae erano generalmente di forma quadrangolare***, anche se ne sono documentate di forma circolare, e di altezza tale per cui fosse possibile toccarle con la mano e versarvi libagioni o offerte stando in piedi. Si trovavano spesso in un luogo consacrato, fanum o sacellum (vedi oltre), se erano annesse ad un tempio, erano normalmente all’esterno dell’edificio sacro, così che i sacrifici fossero sempre compiuti sotto il cielo (vedi AFA****), tuttavia sappiamo che c’erano sacrifici che si svolgevano nella parte interna del tempio (penetrale sacrificium [Fest. 250]), per cui dovevano essercene anche all’interno [Suet. Aug. XXXV; Arnob. Adv. Nat. VII, 15; Tac. Ann. XVI, 30].

 

I foci erano focolari portatili, generalmente rotondi, muniti di manici, in metallo o terracotta, di piccole dimensioni. Venivano ampiamente usati sia in ambito privato che pubblico, ad esempio nei riti di capitis sacratio [Cic. Domo 123 24; Plut. Cras. XVI; Plin. XXVIII, 3, 11]. Alcuni, bassi e di piccole dimensioni, erano soltamente posti davanti a statue e immagini sacre e usati per bruciare incenso lasciato cadere dal devoto in piedi (arae turicremae).

 

Solitamente erano posizionati nei pressi delle arae e vi si facevano sacrifici di incenso, liba, cereali, libagioni, ecc... escluse quelle di exta. Era sul focus che si davano le offerte della praefatio. Questa distinzione è riportata da Servio

 

<qui si riferisce al rito pubblico in cui si consacravano i foci assieme alle arae [...] crateras sicuramente, nei quali libavano [foci], focos in verità, in cui si compiva il sacrificio legittimo [arae]> 

[Serv. Aen. XII, 118]

 

Contro troviamo un passo di Fabio Pittore dal commento al diritto pontificio che allude alla presentazione di exta anche sui foci [Fab. Pict. De Jure Pont. I, Fr. 4 P apd Macr. Sat. III, 2, 3], oltre che un esempio tratto dagli atti degli arvali [AFA 17 24]

 

 

La presenza, all’interno dello spazio sacro del sacrificio di ara quadrangolare e focus circolare, ricorda l’organizzazione dello spazio sacro della città di Roma, in cui le arae erano nei templi dedicati alle diverse divinità, e un altare circolare era nell’atrium vestae, a sua volta quest’organizzazione richiama la disposizione degli altari nel sacrificio vedico*****. Le arae sono gli altari dedicati ai singoli Dei, su cui bruciano le parti delle vittime a Loro destinate, i ‘fuochi delle offerte’ con cui l’offerta era trasmessa ai Celesti. Di forma quadrangolare e orientate secondo i punti cardinali, rappresentavano il cielo, vi bruciava quindi il fuoco che sale, che stabilisce la comunicazione tra uomini e Dei e permette lo svolgimento del banchetto sacro. Si trattava quindi degli altari sacrificali veri e propri. Il focolare rotondo, invece non serviva al sacrificio (come nel fuoco di Vesta non si compivano sacrifici), esso era il ‘fuoco del celebrante’ che lo individuava e centrava all’interno dello spazio sacro, il fuoco terreno, rotondo che rappresentava la terra (così come Vesta e il suo fuoco erano idenificati con Tellus), e la casa; era probabilmente acceso con i tizzoni portati dal focolare domestico (come afferma Ovidio nel caso del sacrificio a Terminus [Ov. Fast. II, 639 segg.]), oppure, come il fuoco di Vesta, per frizione.

 

È noto un caso di offerta di exta compiuta su un focus, quello della vacca honoraria durante i riti per Dea Dia [AFA 17 24], va però notato che tale offerta era compiuta nel circo adiacente il santuario, forse sulla pista, in un sito in cui era impossibile costruire un altare, per cui era necessaria una struttura mobile. Attorno al focus erano ammassate zolle d’erba, quest’azione poteva avere il significato di una trasformazione in ara, poiché sappiamo che, anche quando furono costruite in pietra, tali strutture mantennero l’aspetto (almeno nelle decorazioni) di cumuli di zolle; è anche possibile che in questo modo la forma circolare del focus venisse celata all’interno di un cumulo quadrangolare.

 

L’incenso e le sostanze odorose erano spesso bruciati su bracieri portatili chiamati turibula [Cic. Verr. II, 4, 21, 46; Liv. XXIX, 14, 13; Val. Max. III, 3], che era possibile portare in processione.

 

 

 

*** E. Lubbert - Commentationes pontificales pgg 93 94

**** E. Lubbert - Commentationes pontificales pgg 95 96

 

*****G. Dumézil La Religione Romana Arcaica pgg 278 285; R. Woodard Indo-european Sacred Space 2006 §2 - §3

 

 

 

Mensa

Le mensae erano tavoli di vari materiali, posti di fronte ai simulacri degli Dei, sui cui si trovavano le supellettili sacre e venivano deposte le offerte che non erano destinate ad essere consumate, ma solo consacrate (penetrale sacrificium [Fest. 250]). La rimozione di tali offerte (migrare mensam, convelli mensam) non poteva avvenire con leggerezza, ma doveva seguire all’assenso della divinità (probabilmente veniva eseguito un qualche rito augurale che non ci è pervenuto) [Fest. 158; Serv. Aen. XI, 19]

 

Sulle mensae non si potevano versare libagioni [Tatius Fr. 1 B apud Macr. Sat. III, 11, 5; Serv. Aen. VIII, 279], che invece si facevano sugli altari; tuttavia era usanza consacrare le mense dei templi assieme agli altari, così che potessero svolgere la stessa funzione [Gran. Flac. Lic. Fr. 9 H apud Macr. Sat. III, 11, 5; Fest. 157; Verg. Aen.

I, 736; Serv. ad loc.; Verg. Aen. VIII, 279; Serv. ad loc.; Val. Max. VIII, 15, 8; CIL III, 6120; V, 815; 6353; X, 205;6683], ovvero deporvi vivande, libagioni, offerte in denaro [Macr. Sat. III, 11, 6]; quelle su cui i sacerdoti compivano dei riti sacrificali erano chiamate anclabris [Fest. 11], diversamente dai tavoli profani detti escariae [Fest. 77]; erano invece chiamate trivialis le mensae poste negli incroci [Fest. 158] su cui deporre offerte, probabilmente ai Lares Compitales. Una mensa consacrata doveva essere presente nel tempio di Dea Dia, poiché sappiamo che gli Arvali vi compivano uno dei sacrifici

 

<reversi in aedem, in mensa sacrum fecerunt ollis>

<rientrati nel "tempio", prepararono le pentole presso la mensa sacra>

[AFA 26] [trad. Viotti]

 

Sulle mensae, su cui erano deposti dei cereali o del farro, si prestava sacro giuramento (mensa frugibusque jurato significa [giurare] per mensam et fruges) [Fest. 124].

 

Sono ricordate in particolare le mensae che si trovavano nelle sedi delle curiae (curiales mensae), su cui si sacrificava a Juno Curitis [Fest. 64; Dion. H. II, 23; 50]; a Juno Lucina era consacrata una mensa su cui si sacrificava per una settimana dopo la nascita di un bambino [Tert. De Anima XXXIX]. Esistevano anche mensae chiamate adsidelae a cui sedevano i flamines quando  compivano certi sacrifici che non ci sono stati tramandati [Fest. 19].

 

In ambito domestico la mensa era sacra [Plut. Q. R. 64; Q. C. VII, 4; Priap. XVI, 8; Cic. Leg. II, 66; Sil. It. XVII, 281], sacra mensa [Val. Max. II, 1, 8; Tac. Ann. XV, 52], mensae deorum [Verg. Aen. II, 764; Cic. Har. LVII]: di solito posta davanti al focolare domestico o al larario, così che gli Dei Domestici potessero condividere il pasto con la famiglia riunita [Hor. Epod. II, 65; Prop. III, 7, 65; Ov. Fast. VI, 307]

 

<postquam avem aspexit in templo Anchisa, / sacra in mensa Penatium ordine ponuntur;

/ immolabat auream victimam pulchram>

[Naev. Pun. III Fr 25 B apud Prob. In Verg. Ecl. VI, 31]

 

<Notti e cene divine! / Mangiare con gli amici / davanti al proprio Lar>

[Hor. Sat. II, 6, 66]

 

Segno di consacrazione era la presenza della patella, un piccolo piatto su cui si presentavano le offerte agli Dei [Var. apud Non 544; Stat. Silv. I, 4, 30; Liv. XXVI, 36; Cic. Ver. II, 4, 21, 46 22, 48 ], soprattutto primizie e farro salato [Val. Max. II, 8, 5] e del salinum [Fest. 157; Fest. 329; 344; Hor. Car. II, 16, 13], con cui si offriva sale o farro salato, supellettili sacre [Arnob. Adv. Nat. II, 67; Acron. In Hor. Carm. Comm. II, 16, 14; Val. Max. IV, 4, 3; Plin. Nat. Hist. XXXIII, 44, 153; Liv. XXVI, 36, 6; Cic. Fin. II, 7] e indispensabili al rito privato, in special modo per le parentatio [Fest. 157]

 

<propriamente salinum e patella nella quale erano offerte primizie con sale agli Dei>

 [Porph. In Hor. Carm. Comm. II, 16, 14]

 

<non si fece scrupolo di asportare quel simbolo [patella] dei Penati e degli Dei Ospitali dalla mensa>

 [Cic. Ver. II, 4, 22, 48]

 

<patella[...] cultrix foci[...] che è usata nei riti sacri>

 [Pers. III, 25 e Schol. in Pers. III, 26]

 

<cultrix foci perché il le primizie dei banchetti, offerte in libagione, venivano poste in essa e offerte al fuoco>

[Schol. in Pers. III, 26]

 

inoltre non erano mai sgombre, ma vi si lasciava sempre una parte del pasto o delle suppellettili.

 

<Floro: chi osserva le antiche usanze non permetterebbe che la mensa sia levata quasi vuota, ma vi lascerebbe sempre del cibo, dichiarando altresì che suo padre e suo nonno[...] non avrebbero tollerato che la lampada fosse spenta dopo la cena [...] Lucio disse che aveva sentito dire a sua nonna che la mensa era sacra e nulla di ciò che è sacro dovrebbe essere lasciato vuoto>

 [Plut. Q. C. VII, 4; cfr. Q. R. 64]

 

Una mensa vuota era vista come qualcosa di impius, contrario alle norme religiose, fonte di contaminazione, tanto che era vietato presentare una mensa vuota davanti al flamen dialis [Serv. Aen. I, 706].

 

Una volta che fosse stata imbandita era usanza diffusa deporvi l’anello di uno dei commensali in segno di buon augurio [Plin. Nat. Hist. XXVIII, 5, 24]. Spesso vi si disponevano le immagini degli Dei (in particolare Genius, Penates, Lares) [Ov. Fast. VI, 307 308; Tib. I, 1, 37 38; Stat. Silv. IV, 6, 32; Fest. 157; Arnob. Adv. Nat. II, 67; Colum. XI, 1] e vi si libava, in particolare per i Penates, gli Dei dell’ospitalità [Cic. Ver. II, 4, 22, 48] e per Giove [Serv. Aen. I, 736].

 

<frattanto fecero il loro ingresso tre valletti che indossavano bianche tuniche allacciate in alto (succinte), due dei quali collocarono sulla mensa i Lares Bullati, mentre l’altro, portando attorno (circumferens) una patera di vino, cantilenava “Gli Dei ci siano propizii (Dii propitii)”> 

[Petr. Sat. LX, 8]

 

La mensa aveva un ruolo centrale durante le feste dedicate alla famiglia come i Caristia [Ov. Fast. II, 617 segg; Val. Max. II, 1, 8], le parentatio e la chiusura dei riti funebri (feriae denicales) [Fest. 157; Cic. Leg. II, 55; Verg. Aen. V, 96 98] e i Saturnalia [Macr. Sat. I, 24, 23; Hor. Car. III, 17, 14; Dion. H. VI, 1; Mart. XIV, 70; Lucian. Sat. XIV], inoltre, nei giorni festivi si aggiungeva al cibo imbandito carne di vittime sacrificali [Juv. XI, 86]

 

Se, durante un banchetto, a qualcuno cadeva di mano del cibo, era considerato un piaculum: non lo si spazzava via tra le immondizie, ma lo si rimetteva sulla tavola e lo si offriva nel focolare del Lar Familiaris [Plin. Nat. Hist. XXVIII, 5, 27]: alla fine del pasto, dopo che le mense erano state tolte, il cibo caduto era portato al focolare e gettato nelle fiamme, mentre i presenti facevano silenzio finché un ragazzo non avesse annunciato che gli Dei erano propizi [Serv. Aen. I, 730; Verg. Aen. VIII, 283 - 284]. Se ciò accadeva ad un pontefice durante un banchetto sacro, il piaculum era molto grave [Plin. Nat. Hist. XXVIII, 5, 27].


 

 

Maurizio Gallina

 

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Commenti: 1
  • #1

    Marco Stella (mercoledì, 13 gennaio 2016 12:31)

    Anche questo, come tutti gli altri, è un articolo interessantissimo. Quello che stai facendo è un lavoro veramente prezioso.